Il ricordo che mi è rimasto del primo giorno di scuola, ovviamente, è molto affievolito sia per la tenera età che avevo, sia per il molto tempo trascorso, quindi le notizie riportate sono da valutare anche in questa ottica, per quanto derivante da quel che si diceva, nel contesto della situazione sociale esistente, nell’ambiente rurale in cui ciò avveniva.
Il primo giorno di scuola è sempre un avvenimento, per un bambino, specie se nel contesto familiare gli “avvenimenti” sono molto rari. Il bel grembiulino nero con un grande bavero bianco da chiudere con bottone ed asola, che mamma premurosamente mi aveva preparato, una cartellina di cartone, contenente un quaderno, una matita e una gomma che papà aveva recuperato in casa. Non ce n’erano molte, in verità, nella nostra casa. Alcuni degli altri bambini erano venuti con la mamma, a presentarli alla maestra; io ero andato da solo, tanto sapevo dov’era la scuola, un altissimo edificio, con un grande portone in mezzo, più grande di tutti quelli normali delle altre poche case li vicino, il Campazzo Sud di Nonantola e poi c’erano tanti altri bambini, molti più grandi, delle altre classi.
Quello che più precisamente mi ricordo erano le scarpe. Io avevo un paio di sandalini, piuttosto malconci; quasi tutti gli altri avevano un bel paio di zoccoli di legno nuovissimi, luccicanti. Li passava la Scuola. Ma solo a chi aveva i genitori iscritti al P.N.F., il partito nazionale Fascista. Non era il mio caso.
Non parliamo della divisa, che per fortuna quel giorno non serviva, con tanto di calzoncini, camicia nera e due enormi fascie bianche, messe a bandoliera, come usava, per fare “Il Saggio”, al sabato nel cortile, dei giovani Balilla. E poi il berretto, il ”Fez” con la frangia dorata: quello l’avevo, come si vede dalla foto. La mamma me lo aveva comprato, non so come, forse vendendo i conigli.
Poi c’era un’altra cosa, che non ricordo più cosa fosse che non avevo. So che la maestra parlava in italiano, io invece solo nel dialetto che si usava in casa nostra. Ricordo che mi misi a piangere ed allora la maestra mandò a chiamare mia zia, la Rina, che faceva la quinta, da un’altra aula lì vicino ed il problema fu risolto.
Poi nella scuola c’era una grande stufa, color ocra, come non avevo mai visto, con una scritta, che più tardi lessi: Becchi, di Forlì. E le pareti, piene di quadri, che anche quelli dopo avrei chiamato carte geografiche ed un grandissimo quadro con la figura di un uomo con una camicia strana, color rosso e una scrittura sotto; era il nome: Garibaldi Giuseppe.
La maestra, che abitava anche lei in campagna, vicino a noi, a 300 metri, si chiamava Prosperina Zagni, che tutti la guardavamo con una specie timore reverenziale, ci indicò ad uno ad uno il posto dove sederci, nei banchi e dopo vari spostamenti, quelli più piccoli davanti ed i più alti dietro e poi ci disse di prendere fuori dalla cartella un quaderno ed una matita e quindi venne a controllarci tutti, uno per uno.
Ricordo che parlò tanto, non ricordo di che cosa, ma in modo rassicurante, disse che avremmo imparato tante cose nuove e poi prese un gesso ed andò vicino ad un grande quadro nero, in un angolo, poggiato su di un cavalletto, che si chiamava “lavagna”, e fece un grande segno bianco dall’alto in basso.
Ci disse che dovevamo copiare quel segno, seguendo le righe che erano sul quaderno: erano le famose “aste”, poi ad uno ad uno passò a vedere, a correggere, ad insegnarci come tenere in mano la matita, a cancellare con la gomma, gli sgorbi e gli strafalcioni che ne venivano fuori. Alla fine ci disse che a casa dovevamo fare una pagina di quelle aste e che la mattina dopo avrebbe controllato.
Dopo altri discorsi, ci fece alzare tutti in piedi, di lato al banco e ci insegnò il passo di marcia, da fermo: un, due, un, due, un due, alt. La cosa non fu molto facile, credo. Infine, con uno di noi che lo sapeva già fare, ci insegnò a marciare, uno dietro l’altro, per uscire in fila indiana dalla scuola.
Nel cortile, c’erano tante altre classi, che marciavano tutte ordinate. Provammo a marciare in fila per due ed in fila per tre, ma la cosa si dimostrò molto complicata. A quel punto suonò la campana ed in un’esplosione generale di grida e di allegria finì il primo giorno di scuola. Al giorno d’oggi queste cose si fanno a due anni.
Nessun commento:
Posta un commento